Una rappresaglia condotta dai militi della RSI contro la popolazione, ultimo capitolo di una serie di episodi violenti condotti da fascisti e partigiani in Val Saviore.

Nell’autunno del 1943 si costituirono in Valle Camonica i primi nuclei organizzati di resistenza al fascismo: uno tra Darfo e Cividate e l’altro in Valsaviore. In quest’ultima località si costituì la 54^ Brigata Garibaldi guidata da Antonino Parisi, intitolata a Bortolo Belotti, loro primo caduto (7 maggio 1944).
Le autorità della Repubblica Sociale inviarono sul posto una formazione paramilitare di uomini reclutati nelle prigioni: la Banda Marta. Loro compito era quello di reprimere i movimenti di ribellione e stanare i collaboratori civili dei partigiani. La “Marta” si rese responsabile di episodi di vero e proprio banditismo, tanto che lo stesso comando della Guardia Nazionale Repubblicana di stanza a Cevo denunciava:

«Nei giorni 17 e 18 la controbanda si abbandonava a rapine e saccheggi per tutto il paese, svaligiando magazzini ed abitazioni private, spesso di povera gente, spogliando persone sulla pubblica via per portar via gli indumenti e maltrattando tutti senza alcun ritegno e la minima cautela. Al distaccamento della Guardia era una vera e propria folla di persone che venivano a denunciare i danni a protestare perché, conosciuta la formazione come una falsa banda, non sapevano rendersi conto di ciò che accadeva ed accusavano i militi della Guardia di permettere ai “fascisti” ed ai “repubblichini” di compiere impunemente dei veri e propri atti di brigantaggio. Il 19 maggio 1944 questa accozzaglia di delinquenti fascisti trucidò in località Musna una pacifica famiglia di contadini: i coniugi cinquantanovenni monella Giovanni e Scolari Maria, la figlia Maddalena e lo scalpellino Francesco Belotti»

La cappella che ricorda i fatti del maggio 1944
La strage della famiglia Monella

L’efferato episodio che vide protagonisti tre dei quattro componenti della famiglia Monella a Musna avvenne poco dopo le ore 6 del 19 maggio ed i militi trucidarono in rapidissima sequenza, dopo averli allineati, Giovanni Monella con sua moglie Maria Angelica Scolar (ambedue 59 anni), la figlia Maddalena (29 anni) e poco distante freddarono Francesco Belotti (41 anni), che interrogato sulla presenza di partigiani nella zona dei fienili non seppe dire nulla. I repubblichini giustificarono l’uccisione dei quattro civili avallando la tesi che essi avessero dato rifugio a tre partigiani sorpresi in un fienile nelle vicinanze della loro abitazione, versione chiarita e smentita anni dopo da un testimone, tale Domenico Biondi, allora trentunenne. Oggi sappiamo che i partigiani in quei giorni si erano spostati da Cevo, proprio per la presenza della banda Marta, quindi i tre individui scovati a Musna dai fascisti non potevano essere partigiani, ed è il Biondi a spiegare chi fossero: uno era proprio lui, che si trovava nel suo fienile in località Ghisella e verso le ore 5 del 19 maggio 1944 fu trovato dai militi della banda Marta, che lo costrinsero a seguirli fino a Musna, dove scovarono due renitenti alla leva nascosti in una malga al limitare di un prato: Domenico Monella e Mario Matti. I tre furono allineati con il Biondi contro il muro esterno dell’edificio per essere passati per le armi, ma per loro fortuna l’arma del milite si inceppò e riuscirono a fuggire rocambolescamente. A quel punto la famiglia Monella, sentendo i rumori della vicenda, uscirono dalla malga posta nelle dirette vicinanze e per rappresaglia furono uccisi immediatamente.

L’agguato alla centrale di Isola
Gino Febbrari

Nella frazione Isola di Cedegolo, l’unità della GNR comandata da Gino Febbrari (26 anni), già Commissario del Fascio Repubblicano di Bagnolo Mella, difendeva la centrale idroelettrica. La sua unità è stata attaccata il 30 giugno dalla 54^ Brigata Garibaldi e nell’operazione il presidio fascista venne conquistato dai partigiani, 4 militi morirono negli scontri o, come nel caso di Febbrari, furono catturati e fucilati subito dopo. Dalla parte dei garibaldini morì invece Luigi Monella di Cevo.
L’incursione era troppo grave per il comando militare e doveva essere vendicata. Si attese il 3 luglio, quando era previsto il funerale del partigiano Luigi Monella: sapendo che molti compagni avrebbero partecipato alla funzione, la GNR si organizzò per “restituire” il favore.

La rappresaglia del 3 luglio

Sotto il comando del tenente colonnello Ernesto Valzelli, la GNR, unitamente al battaglione paracadutisti “Mazzarini”, salì in Val Saviore con circa 2000 soldati. Avvisati dell’arrivo della colonna, i 23 partigiani presenti a Cevo, sotto il comando di Parisi, cercarono di organizzare la resistenza tenendo impegnati i fascisti per qualche ora, fin quando furono costretti a ritirarsi per non essere accerchiati. Salendo in paese, i soldati rastrellarono Cevo casa per casa, saccheggiando le abitazioni ed appiccando il fuoco.
Negli scontri cadde il partigiano Domenico Polonioli, mentre nella violenta rappresaglia i fascisti uccisero i civili Cesare Monella, Francesco Biondi, Giacomo Monella, Giovanni Scolari, Domenico Rodella e Giacomina Biondi.
L’incendio del paese durò per tre giorni e i suoi bagliori proiettavano sinistre luci sulla media Valcamonica. La ferocia dell’azione produsse i seguenti risultati: 151 case completamente distrutte, cui ne vanno aggiunte 3 di Saviore, altre 48 gravemente danneggiate dalle fiamme, dai mortai e dalle mitragliatrici pesanti, 12 case danneggiate per un totale di 800 persone rimaste senza un tetto e in gran parte alloggiate dai gesuiti nel collegio di Villa Adamello.

Cevo dopo la rappresaglia del 3 luglio 1944
Risultato della repressione

Se l’intento dei fascisti era quello di sopprimere la brigata partigiana o di allontanarla dai suoi sostenitori in Val Saviore, esso fallì miseramente. Dopo l’eccidio i nazi-fascisti dovettero abbandonare la valle, essendosi rinsaldato il supporto della popolazione ai patrioti della 54^.
Purtroppo, di fronte all’aumentare delle azioni partigiane, le violenze proseguirono nei territori circostanti: rapine e uccisioni si segnalano a Bienno, Astrio, Capodiponte e Cerveno, dove venne ucciso un invalido di guerra, e la tecnica degli incendi alle abitazioni si verificò anche a Corteno, ma la strage più efferata di quell’estate sarà il ferragosto di sangue di Bovegno, quando 15 persone inermi verranno ammazzate da tedeschi e militi della Sorlini.

Nel 1992 il Comune di Cevo è stato insignito della Medaglia di Bronzo al Valor Militare con la seguente motivazione: “Sin dall’8 settembre 1943 la popolazione di Cevo non esitò a prendere le armi contro l’invasore. In 18 mesi di aspri combattimenti, malgrado le distruzioni e le rappresaglie subite, le formazioni partigiane diedero un notevole contributo di sangue e di valore, sia nella difesa del proprio territorio, sia nella liberazione della Val Camonica fino al salvataggio delle centrali idroelettriche dell’Adamello”.

Alberto Fossadri

Fonti:
– Emanuele d’Adamo – L’incendio di Cevo il 3 luglio 1944, una cronologia di contesto e alcune testimonianze
I giorni della Resistenza bresciana, Giornale di Brescia, 1975
https://www.bresciaoggi.it/home/provincia-in-primo-piano/cevo-il-massacro-della-famiglia-monella-1.4146980
– Ludovico Galli – I Dimenticati, i caduti della Repubblica Sociale Italiana, Zanetti Editore
Brescia Libera e Il Ribelle (1943-1945), ristampa anastatica, Brescia, Centro Stampa ASM, 1970
http://www.museoresistenza.it/3-luglio-1944